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Viaggiare mi ha salvato la vita

L’altra sera è successa una cosa strana: ero in un locale, qui a Padova, e mi sono ritrovata a dover rispondere ad una domanda un po’ scomoda: “ma quindi, adesso che non hai più una lavoro, di cosa ti occupi?”
E in una società che ti impone limiti e regole di ogni genere, rispondere a questa domanda diventa particolarmente complicato. Effettivamente, come lo spieghi?

“Eh si guarda, mi sono licenziata per andare in giro per il mondo.”
“Cazzona”, penserete, e magari avete pure ragione.

Ho passato tre anni immersa fino al collo nel caos di Milano, tra un lavoro a tempo pieno e un affitto da pagare. I primi mesi, è tutto meraviglioso.
Vieni catapultato in una realtà completamente fuori dal tuo immaginario, tu, abituata ai ritmi di una piccola città (ho vissuto anche a Londra, è vero, ma quello non fa testo. Londra è mille volte più organizzata, e…calorosa).
Sono arrivata a Milano con una valigia e i capelli a caschetto, assetata di indipendenza e voglia di mettermi in gioco. A 24 anni è questo che dovresti avere: energia da vendere e voglia di spaccare il mondo.

Ma la verità, purtroppo è un’altra: mi sono trovata a dover (e voler) bruciare le tappe prima del previsto. A 18 anni già lavoravo, vivevo fuori casa e non solo…. convivevo. Gli anni in cui dovresti goderti le serate fuori con gli amici, magari in discoteca, li ho passati archiviando le bollette della luce e dell’acqua, pagando affitti e mettendomi da parte piccoli risparmi, mese dopo mese. Ho imparato a cucire, a cucinare e a fare la lavatrice, stringendo qualche maglione ogni tanto.

E quando un bel giorno ti svegli e ti crolla il mondo addosso, e ti passa la fame, e non sai più con chi parlare o a chi chiedere aiuto, ti rendi conto di quanto siamo davvero soli. Quindi a 24 anni, tutta questa voglia di spaccare il mondo l’avevo persa per strada da un po’.

Ho trovato subito lavoro nella moda. Una volta al mese tornavo a casa a trovare i miei a Padova, un paio di giorni per poi risalire sul frecciarossa per Milano. Così per 3 anni. Sono volati, e non me ne sono nemmeno resa conto.
E sapete quando me ne sono accorta? Quando il corpo mi ha detto “BASTA, non ce la faccio più!”

Novembre, 2018. Sono a casa, a Padova. Dal niente, scoppio a piangere fortissimo. Non mi fermo, e la cosa peggiore è che non respiro. Non mi entra un filo d’aria nei polmoni, mi sento senza forze e mi spavento. Tantissimo.

Ho avuto mia madre che per minuti interminabili mi accarezzava la testa mentre io stavo rigida a terra, senza muovermi, senza respirare. Avevo avuto il secondo attacco di panico in un anno. Pensi sempre che sia un po’ di stress, non ci dai troppo peso. Finche tac, si crolla. E ti prescrivono degli integratori, della camomilla, delle pillole per rilassare i muscoli, delle gocce per dormire e via così.

10 giorni senza alzarmi dal letto. Mangiando a fatica. Il cellulare in un’altra stanza. E quelle poche volte che andavo a vedere se c’erano messaggi, ne trovavo veramente pochissimi. Due, forse tre. In ore e ore di silenzio.

Quando mi chiedono come convivo con la solitudine, automaticamente ripenso a quei giorni. A come mi sia trovata in mezzo ad un isolamento forzato, ad una solitudine assolutamente innaturale e non programmata. Inizialmente faceva male. Male come quando si viene lasciati dalla persona che più amiamo al mondo. Male come quando il tuo migliore amico rimane vittima di un incidente stradale, male come quando la tua migliore amica ti abbandona. Male cosi, male che il cuore ti si stringe talmente forte da non riuscire a respirare, fino ad arrivare agli attacchi di panico.
Male così.

C’è un lato del mio carattere che è particolarmente fragile, e che mi rende estremamente vulnerabile nel momento in cui mi rendo conto di aver deluso qualcuno. Ma è lo stesso lato di carattere che, quando una delusione la ricevo, viene automaticamente disintegrato.
E in quel preciso momento, succede qualcosa di veramente difficile da gestire: mi chiudo in me stessa. Smetto di parlare, di fotografare e di scrivere. Smetto di truccarmi e ogni capo nel mio armadio sembra che mi stia davvero male addosso.
Non esco, non rispondo al telefono.

La solitudine è per me una cicatrice in pieno volto con la quale ho imparato a convivere per non stare male col mio aspetto fisico. E quando pensavo di star meglio, quando pensavo di averla accettata, eccola che si ripresenta, ancora più forte, sempre più prepotente.

A Maggio mi sono ritrovata a piangere di nuovo senza motivo, ad avere costantemente lo stomaco chiuso e a non trovare un senso alla mia vita.
Mi stavo, per la prima volta in vita mia, interfacciando con la routine. E mi stavo ammalando.

Ringrazio mia madre, per avermi presa e per avermi dato uno scossone. Non ero in grado di ragionare, di pensare. Non trovavo ne problema ne soluzione.
Lei mi ha presa, sull’orlo della depressione, e mi ha spinta a fare ciò che da sempre mi ha dato la carica: viaggiare.
Mi ha fatto ricordare quando sono andata a Roma per la prima volta, con le scarpe comode e gli occhi lucidi. E mi ha fatto capire che ero entrata in un circolo vizioso, in cui lavoravo per pagarmi una casa in cui non ero mai, perchè dovevo lavorare. Ed è assurdo tutto ciò.

Io non ce l’ho con Milano, o con il mio (ex) lavoro. Questa due cose insieme mi hanno dato l’indipendenza, quella vera, e mi hanno fatto crescere tanto.

Però non sono stati loro a ridarmi coraggio, autostima e fiducia in me stessa. Sapete cos’è stato? Il mio biglietto aereo per Parigi. E vi pare poco?
E mai, mai come in questi mesi, ho valutato il “viaggio” come un effettivo medicinale.

E’ stata per me una cura, e non per scattarmi qualche foto con dei paesaggi suggestivi. A viaggiare sono bravi tutti. Ma pochi un viaggio se lo vivono davvero, mangiando le cose tipiche del posto, esplorando, fregandosene dei giorni di pioggia o della paura di non essere capiti in un’altra lingua. Il mio bisogno di libertà, il mio spirito ribelle e da pecora nera, si può curare solo così.
Perchè quando mi mettono in gabbia, lentamente (e senza accorgersene) mi lasciano morire.

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